30 anni fa l’elezione diretta dei sindaci. Una riforma per metà tossica

Ma basta per affermare che tutto va bene? Per onestà dobbiamo dire che quella riforma, oltre alle cose buone, ne ha portate di pessime.

Ha determinato la fine dei partiti come scuole di selezione della classe dirigente e, nei comuni sotto i 15.000 abitanti, li ha così depotenziati da farli quasi scomparire. In molti casi li ha trasformati in semplici comitati elettorali. Questo ha comportato un decadimento della classe politica e un prosciugamento del dibattito pubblico.

Ha determinato la fine della democrazia proporzionale, per cui il mio voto non vale quanto il tuo, introducendo nei comuni sotto i 15.000 abitanti una rottura della democrazia. Basta un voto in più per ottenere la maggioranza assoluta. Si arriva così al paradosso che, con la frammentazione delle liste, una lista con il 25% governa come se avesse il 55% dei voti. Facendosi beffe del 75% dei cittadini che non l’hanno votata.

Infine quel tipo di investitura diretta porta spesso gli amministratori a sentirsi dei piccoli Cesari, una sindrome che tutti coloro, me compreso, che hanno fatto il Sindaco, hanno patito. Non a caso, ancor oggi, si sente parlare di partito dei sindaci, un modello trasversale dove la politica viene sostituita da una presunta tecnocrazia del potere.

Quella riforma ha cambiato molto ma non sempre in meglio, ha spostato i pesi del potere a scapito della democrazia partecipata, favorendo così mediocrità ed arrivismo.

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