Sui 100 anni del PCI/1: chi festeggia e chi non festeggia

Una differenza non semantica, ma politica. Partito comunista Italiano stava ad indicare l’appartenenza ad uno spirito nazionale, Partito Comunista d’Italia voleva dire essere un’appendice dell’Internazionale comunista fondata a Mosca nel 1919.
Il 21 gennaio 2021 per molti sembra essere, da quel che leggo, un giorno laicamente “religioso”, pieno di immagini, memorie e bandiere rosse. Niente di male. Anch’io vengo da quella storia e riconosco i meriti che ha avuto quel grande partito: ha offerto una voce a chi non la possedeva, ha lottato per i diritti del lavoro e soprattutto ha dato dignità alla politica. Ebbene, pur riconoscendo tutto questo, non ho voglia di festeggiare.
Non ne ho voglia perché in quel lontano 1921, lontano per modo di dire, cento anni nella storia sono un battito d’ali, si è consumata una divisione che, vista con gli occhi di oggi, appare una ferita profonda.
Lo so bene, non si può prescindere dal contesto storico, dall’idea che allora in tanti avevano che fosse possibile “fare come in Russia”, non si può trascurare il “biennio rosso” che aveva preceduto il congresso di Livorno e le speranze che aveva suscitato. Tutto questo è vero, epperò di errori ne sono stati fatti tanti. Rileggendo alcuni articoli, datati 1921, della “Falce”, organo ufficiale della Federazione Socialista aretina, in mano alla fazione comunista, ho rilevato come trasudassero velleitarismo, ingenuità, essi prefiguravano rivoluzioni impossibili quando già i fascisti si erano consolidati e imponevano con la forza le dimissioni delle giunte “rosse”. Quanta miopia e quanta sottovalutazione in quelle parole!
La stessa miopia che vedo oggi, anche qui da noi, dove impera la divisione ed il nemico non è l’avversario politico, ma colui che ti sta più vicino. E’ sufficiente analizzare quello che è accaduto in molte elezioni locali in provincia di Arezzo, è sufficiente vedere quello che accade oggi a livello nazionale, per capire che il virus della frammentazione è ancor oggi attivo, benché mutato nei modi e nelle forme.
Per questo mi è passata la voglia di festeggiare e mi domando dove abiti oggi a sinistra la ragione. Di una cosa son certo, non abita nel cinico interesse personale, non abita nella meschinità degli sgambetti, non abita in chi considera la cultura un orpello, non abita nei giochetti di palazzo. E anche per un altro motivo non voglio festeggiare, perché se guardo al congresso di Livorno del 1921 e a tutto quello che ne è seguito, ai sacrifici di intere generazioni, mi piange il cuore prendere atto di come quell’eredità sia dispersa e riviva solo nei ricordi. I ricordi sono macchine del tempo che ci riportano indietro, io vorrei una macchina del tempo che ci portasse avanti, quella macchina che i poeti chiamano sogno e che la politica dovrebbe tradurre in idee e pensieri lunghi.

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