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domenica | 23-02-2025

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Sanità, non è stata la pandemia

Queste non sono solo scelte tecniche, sono soprattutto decisioni politiche. Perché le tecnologie sono indispensabili ma, alla fine, quello che conta è il risultato sociale: ci possiamo girare intorno quanto vogliamo, ma se la tecnologia non è utile a migliorare la vita delle persone, serve a poco.
Non è stata infatti la pandemia a creare distanza sociale e disuguaglianza, non è stata la pandemia a scavare un solco tra garantiti e non garantiti, non è stata la pandemia a plasmare un sistema economico fragile.
Queste cose c’erano anche prima, il virus ce le ha sbattute in faccia. Le ha sbattute in faccia a una sinistra che non ha visto quello che stava accadendo in questi anni, convinta, un po’ come tutti, che bastasse aumentare la produzione per dare più ricchezza e felicità. Senza rendersi conto che, insieme a una economia diseguale e ambientante insostenibile, cresceva una cultura diffusa dove i sentimenti individualistici la facevano da padroni per cui oggi si confonde la libertà, quella con la L maiuscola, con la possibilità di farsi un aperitivo, cosa piacevole, ma che con la libertà non c’entra un fico secco.
La politica, persuasa che il suo ruolo fosse ormai solo quello di affinare le strategie di vendita di se stessa, ha abdicato alla funzione di guida, inseguendo soluzioni tecniche laddove invece c’era necessità di scelte politiche.
Oggi, tutti, in sanità, parlano di ripartire dai territori per riorganizzare i percorsi di cura e assistenza. Chiacchere che valgono zero se non si traducono in atti concreti e soprattutto se non si ribalta la logica per cui a stabilire le strategie sono chiamati esclusivamente i dirigenti e i direttori generali e la politica va a rimorchio.
Se vogliamo parlare di cambiamenti, anche per la nostra realtà, lo si deve fare muovendo dal basso. Con un’operazione di verità che veda coinvolti i medici di famiglia, gli infermieri che operano nei territori, le associazioni di volontariato e le amministrazioni locali.
Da qui bisogna ripartire per capire quali sono i bisogni della nostra gente, perché non se ne può più di grandi ragionamenti (infarciti di termini anglofoni) che non approdano a niente.
Come fare? Intanto riconoscere con umiltà che i grandi ambiti territoriali, che spaziano da Sestino all’Isola del Giglio, sono stati un errore. In secondo luogo che occorre riequilibrare il rapporto tra strutture tecniche e politica. Perché, parliamoci chiaro, spesso quello che muove le ruote degli apparati è l’interesse dei singoli e non l’interesse generale. E soprattutto ci vuole immaginazione, capacità di prefigurare il futuro. Perché non è serio da parte di nessuno promettere la luna, sapendo che la luna è irraggiungibile. Cerchiamo invece di capire cosa è valido per un territorio. Faccio un esempio. Io vivo in Valdichiana e, a memoria mia, l’unica vera innovazione degli ultimi anni sono state le Case della salute, per il resto una continua perdita di servizi senza che una voce si alzasse a dire fermiamoci e ragioniamo. Tutti si sono accontentati di promesse. Tutti contenti perché alla fine si siglavano bellissimi protocolli d’intesa buoni per i mezzi di informazione ma inutili per la gente.
Tornare ai territori vuol dire sporcarsi le mani con la quotidianità, vuol dire assumersi la responsabilità di decidere. Responsabilità e decisione, due cose che ormai anche quelli che sono stati eletti per decidere, scansano come la peste.
I convegni, i meeting e i seminari devono venire dopo che si è ascoltato, non prima, perché altrimenti nasce il sospetto che siano solo chiacchiere, le stesse chiacchiere che periodicamente ricompaiono a ogni elezione ma che, all’indomani del voto, sono già lettera morta.

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