Gli “eroi del quotidiano”
Un tempo in Italia
c’erano 40 mila edicole. Di queste, negli ultimi anni, almeno il 40% (16 mila), ha chiuso i battenti. La pandemia ha dato il colpo di grazia alla vendita dei quotidiani cartacei. Pensiamo solo all’assenza, ancor oggi, in molti bar e locali pubblici, dei giornali da sfogliare. Sono copie in meno vendute. Migliaia. Ma il destino della carta stampata sembrava già segnato ancor prima del tragico evento pandemico, se è vero che negli anni ottanta le due maggiori testate italiane, “Corriere della Sera” e “La Repubblica”, viaggiavano tra le 600 e le 700 mila copie al giorno. In caso di eventi straordinari (un terremoto, la morte del Papa, la vittoria dei campionati del mondo), “La Repubblica” superava il giorno dopo il milione di copie. Numeri da paese anglofono, dove la press ha una tradizione ben più forte rispetto a quelli latini come il nostro. In ogni caso, segno anche di grande attenzione da parte dei cittadini. “La Repubblica” e il “Corriere della Sera”, con i loro approfondimenti, gli articoli di fondo di prestigiosi editorialisti, costituivano in quegli anni, anche per noi giovani universitari, un irrinunciabile punto di riferimento culturale. Prima del treno per Firenze delle 6.30, era d’obbligo una tappa all’edicola per l’acquisto del quotidiano. “La Nazione” e il “Corriere di Arezzo” per la cronaca locale, “La Repubblica” e il “Corriere della Sera” per le notizie e gli approfondimenti dall’Italia e dal mondo. E durante il viaggio era anche semplice e curioso capire, tra i pendolari del mattino, che il lettore de “Il Sole 24 Ore” svolgeva spesso il lavoro di bancario o era studente di economia, mentre “La Repubblica” era il giornale preferito dagli studenti di Giurisprudenza, per il tifoso ampia scelta tra la “La Gazzetta dello Sport”, “Tuttosport” o il “Corriere dello Sport – Stadio”, a seconda della fede calcistica. Insomma, i quotidiani erano anche un segno di condizione sociale e di interessi personali. Larga diffusione avevano i settimanali, con i loro ricchi approfondimenti e reportage. In questo settore si giocavano il primato “L’Espresso” e “Panorama”, quelli a maggiore tiratura, qualità grafica e di contenuti. E non era infrequente che i titoli, gli occhielli e il contenuto degli articoli, diventassero oggetto di dibattito e battute tra i passeggeri, una sorta di socializzazione secondaria (direbbero psicologi e sociologi) colta, ma spesso anche colorita e divertente.
Oggi
tutto questo è molto più raro. I quotidiani e i settimanali chiudono e quelli che restano in pista sono l’ombra di se stessi. Lo dicono i numeri: il “Corriere della Sera”, la prima testata italiana, diffonde in media circa 260 mila copie al giorno tra versione cartacea e digitale. La Repubblica, in seconda posizione, viaggia attorno alle 180 mila copie. Vendite di copie più che dimezzate, calo vertiginoso delle inserzioni pubblicitarie. Se la carta stampata va malissimo, anche la connessa informazione on line, che pesa per il 25% degli incassi pubblicitari, non decolla. Gli inserzionisti guardano a Google e Facebook e lì investono. Arrancano anche le televisioni Rai, Mediaset, Sky, La7, per non parlare delle locali: costi di produzione altissimi, fatturati da piccola impresa. I network radiofonici, le regionali e le locali, a fronte di una audience importante, hanno storicamente in Italia un peso specifico, dal punto di vista della raccolta pubblicitaria, marginale, se non inconsistente. A questa situazione di vendite al collasso e mancati introiti pubblicitari, hanno contribuito, oltre alla contingenza della crisi anche economica portata dal Coronavirus, la perdita di credibilità in particolare dei quotidiani, con uno standard di contenuti di bassa qualità, l’assistenzialismo statale che ha erogato negli anni risorse ma non ne ha verificato la destinazione e il crescente interesse per l’informazione online, a detrimento di quella cartacea tradizionale.
Ad Arezzo
capoluogo di una provincia di quasi 350 mila abitanti, il secondo quotidiano, il “Corriere di Arezzo”, ha smobilitato la sede locale, centralizzando i giornalisti a Perugia nel silenzio assordante delle istituzioni locali e altre entità editoriali storiche rischiano un ridimensionamento epocale, se non la chiusura definitiva. Alcuni giorni addietro sono stati prepensionati decine di giornalisti del Quotidiano Nazionale, Quotidiano.net, Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. Professionisti che non potranno più svolgere il loro lavoro. Editori che tagliano o spediscono i lavoratori in Cigs, affidando il compito a corrispondenti giovani e naturalmente in regime di semi sfruttamento. In tutto il settore, in Italia lavorano a contratto solo circa 15 mila giornalisti, gli altri (e sono decine di migliaia) sono sottopagati, se si pensa che un articolo originale su carta stampata “vale” un pacchetto di sigarette o meno. Dalle Università sono usciti ultimamente migliaia e migliaia di esperti in comunicazione che non comunicano e se lo fanno, nella migliore delle ipotesi, vanno incontro a anni e anni di umiliazioni e sacrifici (personali e delle famiglie, che hanno investito). In compenso risultano responsabili civilmente e penalmente dei contenuti prodotti.
Un precariato senza fine
direi permanente, che spesso si trascina per una vita intera, alla ricerca di un posto al sole in una redazione che non esiste più, o di un ufficio stampa pagante e appagante. L’Inpgi (l’istituto di previdenza dei giornalisti) è in profondo rosso e probabilmente verrà assorbito dall’Inps, gli editori (razza in via di estinzione) editano giornali, tv, radio, web, senza professionisti, utilizzando improvvisati e avventurieri alla ricerca di dieci minuti di celebrità. E il web? E’ ormai chiaro che gli italiani utilizzano questo canale per informarsi, ma sono molte le testate cartacee non ancora pronte alla transizione digitale. Lo sviluppo delle testate in versione online è in doppia cifra negli ultimi mesi. Secondo i dati Audiweb, le edizioni in rete de “Il Corriere della Sera” e “Repubblica” sono in grande crescita, così come “Il Giornale”, “Il Fatto Quotidiano”, “La Stampa”, “Il Messaggero” e diverse testate locali, in particolare del Sud. Tra le testate native digitali molto bene Business Insider, TPI, Fanpage e Il Post. Bene anche l’agenzia di informazione Agi, Rai News e alcuni siti sportivi come Calciomercato.com e TMW. La total digital audience è quindi in grande aumento, ma la qualità dei pezzi online è mediamente bassa, chi edita è solo alla ricerca di clic, quindi vengono utilizzati titoli sensazionalistici e i contenuti a volte rasentano il giornalismo spazzatura, che, condivisi sui social, generano comunque curiosità, traffico, clic e likes, nuovo mantra. Nella trappola sono caduti editori e giornalisti: ancor oggi c’è chi stima la qualità e l’autorevolezza del proprio lavoro commisurandolo alla popolarità e alla quantità di followers e condivisioni ottenuti. Non funziona così: sono parametri diversi, per la cui valutazione occorrono unità di misura diverse. Non posso esimermi dal constatare che lo “spirito di servizio” che dovrebbe animare chi è chiamato a “dare” una notizia pare sopito, sostituito da “carrierismo social” egocentrico e autoreferenziale, che nulla ha a che vedere con la missione originaria del giornalismo tout court. Torna d’attualità Jorge Luis Borges, il quale ebbe a dire che “stampando una notizia in grandi lettere, la gente pensa che sia indiscutibilmente vera”. Per traslazione, è il caso del web. E in molte testate online, giornalisti pochi, o con poca esperienza. E sempre sottopagati, ovviamente. Insomma, la crisi è strutturale, culturale, cronica. Il premier Draghi ha da affrontare tanti problemi per far ripartire il nostro Paese. Per ora ha dimenticato il settore editoria e informazione, lo stato in cui versano i lavoratori della comunicazione. E se “la stampa (e il suo stato di salute) è per eccellenza lo strumento democratico della libertà”, quello che stiamo vivendo è decisamente un tempo oscuro.