Arezzo: 3 dg, 3 ds, 5 allenatori, 50 giocatori, 1 retrocessione. Ora non lasciate solo il soldato Sussi
E’ stato un periodo nerissimo nella storia del calcio aretino, forse il più nero in assoluto, perché mai in passato si erano registrate umiliazioni sportive in serie come quelle che stiamo collezionando dall’inizio del campionato scorso e fino ad oggi. La disfatta di Poggibonsi purtroppo non cade dal cielo, ma è la conseguenza di un’interminabile serie di errori e superficialità, di ignoranza su come si gestisce una società calcistica, un gruppo di giocatori, di come si sostiene e si affianca uno staff tecnico. In 192 giorni si sono avvicendati al capezzale amaranto tre direttori generali, tre direttori sportivi, cinque allenatori, una cinquantina di giocatori ed il bilancio parla di una retrocessione in serie D sul campo, fatto mai avvenuto prima, con un ultimo posto vergognoso per come è maturato (incluso il fatto che a due giornate dalla fine, dovendo affrontare un Ravenna alla deriva ed un Cesena appagato, avevi quattro punti a portata di mano e potevi addirittura nutrire qualche speranziella di salvezza diretta) ed un campionato di serie D iniziato con rullio di tamburi e già non dico compromesso, ma parecchio ridimensionato dopo sole 11 partite, tre sconfitte, una squadra che pare avere smarrito anche le più elementari nozioni di tattica e di agonismo. La proprietà si è presentata con programmi ambiziosissimi, ma i fatti sono andati puntualmente in direzione opposta rispetto alle parole. Si è iniziato affidandosi al giovane ambizioso direttore generale Riccardo Fabbro, uno con una altissima considerazione di sé e qualche frequentazione dubbia nel curriculum vitae. Con il diesse Di Bari, scelto dopo un immaginifico casting, fecero dell’Arezzo la succursale del girone pugliese di serie D a partire dall’allenatore, con seguito di naufragio sportivo e prestazioni tra l’imbarazzante ed il patetico. Cacciati Fabbro e Di Bari, ha preso le redini Roberto Muzzi, un passato di attaccante di livello in serie A, uomo di fiducia e di riferimento della proprietà. A far da schermo arriva anche Enzo De Vito, navigato uomo di calcio cresciuto alla corte di Faggiano. E’ così cominciato il tourbillon di acquisti a cifre esorbitanti di calciatori che avrebbero dovuto risollevare le sorti del Cavallino. In panchina tecnici di lungo corso, prima Camplone poi Stellone con contratti altisonanti anche loro. In campo però i soldi non ci vanno e qualcosa di stonato da qualche parte dovrà pur esserci stato visto che la squadra, con l’eccezione della partita con la Vis Pesaro nella quale la voglia di rivalsa ci ha mostrato per un istante il fantasma di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato, ripeteva stanche e fiacche esibizioni, trascinandosi verso l’osceno finale. In quel terribile pomeriggio di primavera in Romagna, i fratelli Manzo, reggitori delle nostre sorti, proclamavano solennemente la volontà di immediata risalita ed in subordine la predisposizione altrettanto immediata di ciò che era necessario a predisporsi per un’eventuale, possibile, probabile, ripescaggio. Sappiamo poi com’è andata: i documenti presentati (forse) mezz’ora prima del termine di scadenza, probabilmente incompleti. E comunque niente serie C. Pazienza, ci dicono, costruiremo una grande squadra ed asfalteremo la serie D. Prima scelta, il tecnico. Lo decide Muzzi (con De Vito per nulla convinto) e chiama ad Arezzo Marco Mariotti, sessantunenne con una carriera passata a fare il vice di vari tecnici di livello e da una decina d’anni in proprio ad allenare (solo) in serie D e (solo) squadre di media classifica. La rosa viene costruita acquisendo mezzo Messina, neo promosso in C dal girone siciliano. La ciliegina sulla torta è Strambelli, fantasista di assoluto livello per la categoria. Si parte a luglio per dar modo al gruppo, interamente rinnovato, di essere pronto per inizio settembre. Il popolo amaranto ci crede nonostante qualche inciampo e sostiene con il consueto grande cuore la squadra. Invasione dei campetti di periferia, tripudio di bandiere amaranto a Rieti, a Gavorrano, a San Giovanni, a Città di Castello, nello scontro cruciale con il San Donato. Ma la squadra è in affanno, non vince le partite che contano, non riesce ad esprimere un gioco che non sia affidarsi all’estro di Strambelli. Allora altro giro altra corsa: se ne va De Vito alle prese con problemi familiari, cacciato dopo rassicurazioni ampie, Mariotti. Si opta per la soluzione interna: diesse Tromboni (portato ad Arezzo da Muzzi) e Andrea Sussi in panchina. Le bandiere sventolano comunque, persino a Poggibonsi, nonostante tutto, ma davanti allo scempio nemmeno il grande cuore amaranto resiste e abbandona una ciurma in evidente stato confusionale. Un “fil rouge” terribile accompagna questi mesi: la sensazione di approssimazione ed il terribile dubbio che alla fine alla proprietà di quel che accade in campo e fuori interessi poco. Circolano in città voci di malumori, di clima invivibile nelle stanze della società, di comportamenti non esattamente da atleti professionisti dei tesserati. Poi si sa, Il campo non perdona. In questa triste pagina della nostra storia non si può tacere dell’atteggiamento ai limiti del vilipendio posto in essere da coloro che avrebbero aperto le porte dell’Arezzo a chiunque, purché se ne andasse l’odiata coppia La Cava-Pieroni. Sono state dette bugie clamorose, come quella che questa proprietà ci avrebbe salvato dal fallimento quando la squadra era già stata iscritta da Giorgio La Cava al campionato e lo stesso imprenditore perugino aveva preannunciato che avrebbe gestito la stagione in rigorosa economia (causa covid che aveva frenato i suoi affari). Sono partiti insulti anche pesanti verso chiunque si azzardasse a dire che c’erano opacità nella struttura societaria che acquisiva il club, che il giovane Fabbro, affascinante affabulatore, veniva da una storia che lasciava qualche dubbio, che Potenza e gli arrivi dell’estate 2020 facevano intravedere una debolezza strutturale poi tragicamente confermata dal campo, che le squadre si fanno con i calciatori e non con le figurine… Avallata con impudicizia anche la mancata presentazione (o tardiva e incompleta) della documentazione sul ripescaggio dimenticando quanto era stato promesso a maggio (ed allora mi aspetto che il dossier sia pronto con largo anticipo se davvero interessa). Insultato ad inizio stagione anche chi, come Gianni di Ferdinando, professionista che segue da anni la categoria e la conosce sicuramente meglio di qualche nostro dirigente, metteva in dubbio la qualità della rosa e della guida tecnica rispetto alle enunciate ambizioni. Ora c’è la corsa a cancellare i commenti a quell’articolo, ma sarebbe meglio cercare di aprire la mente, prima di trovarsi lanciati a tutta velocità a mezzo metro dal precipizio e smetterla di pensare che chi critica lo faccia in nome di qualche interesse occulto e non per disincantato amore verso i nostri colori, di nuovo in balia della tempesta. Domani si apre l’ennesima sessione di mercato. I “Biribissi” di cui si parlava la settimana scorsa avranno il compito di rimettere insieme i cocci per rilanciare la stagione prima che si consumi l’ennesimo fallimento. Ma Calderini, acquisto di spessore, non sia l’ennesimo velo dietro cui nascondere il pressappochismo gestionale. I nomi da soli non bastano. Serve leadership, capacità di gestione degli uomini, capacità motivazionali. Non lasciate solo il soldato Sussi.