Enzo Gradassi, il cacciatore di storie aretine: “Il mio Uomodoro dedicato a Piero e Filippo”
Una figura quasi onirica, spesso in sella alla sua bicicletta dorata come i vestiti che indossava o in attesa agli incroci delle strade, dove si diceva che aspettasse un figlio mai tornato da una guerra di Russia.
Ma siccome a dimenticare si fa sempre in tempo, Enzo Gradassi ha deciso di intervenire. “Uomodoro. Ruggero, Bradamante e l’ippogrifo“, è l’ultimo lavoro dello scrittore, già in libreria. L’autore, ex dipendente in pensione dell’ufficio stampa e dell’Assessorato alla Cultura della Provincia, innamorato di passato e folklore aretino, si è già cimentato più volte nella ricerca scientifica sulla storia. I suoi libri contengono saggi, ma anche ritratti. Sopracchiamato Gnicche per esempio, uscito nel 2017 e dedicato al famoso brigante dell’Ottocento, restituito al pubblico in maniera rigorosa, senza paura di smentire la versione ufficiale della tradizione.
Con l’Uomodoro il metodo non cambia. Enzo Gradassi promette una storia completamente diversa da quella che gli aretini hanno conosciuto finora. La sfida è non essere curiosi.
Bianca: Come mai si è interessato a un personaggio come l’Uomodoro?
Enzo Gradassi: L’idea non è mia, ma è nata all’interno di una libreria indipendente di Arezzo, Il viaggiatore immaginario. La scintilla originaria è partita da Giampiero Bracciali, il titolare, che mi chiese perché, dato che mi interesso di personaggi aretini, non avessi ancora pensato all’Uomodoro.
Bianca: Cosa troveremo nel suo libro che già non sappiamo sul suo misterioso protagonista?
Enzo Gradassi: Tutto quello che c’è nel libro. Intorno a questo personaggio aleggia una leggenda fasulla. Di lui hanno scritto in tanti ma nessuno si è preoccupato di sapere come si chiamasse, come vivesse, cosa facesse tutto il giorno, perché si vestisse in quel modo. Secondo me invece il punto di partenza era restituire l’identità a questa persona. Ognuno quando scrive è libero di fare ciò che vuole, io normalmente mi baso su dati reali e non sulle chiacchiere.
Bianca: Crede che oggi ci sia un degno erede dell’Uomodoro nell’immaginario collettivo aretino?
Enzo Gradassi: O ce ne sono tanti o non ce n’è nessuno. Nonostante il vestito appariscente, l’Uomodoro era un invisibile. Oggi ce ne sono moltissimi: i senzatetto, gli immigrati sono per tanti come il granellino nell’occhio. Lui non dava fastidio a nessuno, ma lo si vedeva agli angoli delle strade, si cercava di spiegarlo e basta. È questa la cosa drammatica. L’Uomodoro era il simbolo dell’incapacità della comunità aretina di stabilire un canale di comunicazione, un contatto umano, sociale, civile con qualcuno diverso da te. È stato notato quando ha cominciato a vestirsi in quel modo. Molto probabilmente però stava a osservare agli angoli delle strade da tanti anni, solo che nessuno se n’era mai accorto, perché era vestito come tutti gli altri, era uguale a loro.
Bianca: Questo lavoro è dedicato alle due vittime della tragedia dell’Archivio di Stato dello scorso settembre. Cosa l’ha avvicinata a questo luogo?
Enzo Gradassi: Siccome lavoro con i documenti, l’Archivio di Stato è un passaggio obbligato. Per questo libro sono partito da una pagina bianca. Sapevo soltanto un soprannome e questa leggenda che aleggiava per la città. Per arrivare in fondo ho usato in tutto 7-8 archivi. Pensi che solo per risalire al nome attraverso il giorno in cui era morto l’Uomodoro mi sono sfogliato 3 annate della Nazione, pagina per pagina! C’è un aspetto singolare legato all’Archivio di Stato. Le nostre storie vanno a finire lì soltanto se si commette un reato o un fatto eclatante per cui c’è un’indagine di polizia. Gli incartamenti, esaurito il percorso giudiziario, vengono custoditi nell’Archivio di Stato. Però c’è un’altra traccia che consente a partire da lì di individuare e conoscere solo gli uomini, il servizio militare. Attraverso il registro della leva militare si può sapere quando qualcuno ha fatto la visita, le sue caratteristiche fisiche, dove è destinato eccetera. Questo è sempre un punto di partenza per cercare una persona. Io avevo dei contatti con le due vittime. Filippo Bagni era una persona squisita, mi coccolava proprio. Era sempre incuriosito dalle cose che facevo. Piero Bruni invece era un contabile, andavo da lui a pagare le copie che facevo fare. Era una persona coltissima, aveva letto tutto quello che ho scritto e faceva sempre delle osservazioni molto pertinenti, mi suggeriva anche delle idee. Non mi scorderò mai di loro. La dedica era un modo per confermarlo.
Bianca: Che ruolo ha la scrittura nella sua vita?
Enzo Gradassi: È in primo luogo un piacere. Il mio lavoro mi ha messo nelle condizioni di essere una specie di ghostwriter: scrivevo per conto di altri ma non firmavo. Quando sono andato in pensione ho cominciato a scrivere a nome mio. La conservazione della memoria fa da sfondo generale. E poi dietro la mia scrittura c’è la convinzione che tutte le storie hanno un valore e meritano di essere raccontate.