Gionfrida: “Gioia, la trama prende spunto da fatti di cronaca, anche dal caso Cucchi”
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Lei, spettatrice e protagonista insieme, non smette di amarlo nemmeno quando lo perde. Sul palco, questo venerdì 5 aprile, prenderà forma la storia di un legame senza tempo, a cavallo tra fiaba e realtà. Il dialetto siciliano farà da veicolo alla narrazione, arricchita da animazioni video e interviste realizzate tra le mura del carcere.
Per Livia Gionfrida gli istituti penitenziari sono la residenza artistica ideale. L’Associazione Nazionale Critici di Teatro ha deciso di premiare questa giovane drammaturga, regista e attrice proprio per il suo lungo lavoro di ricerca teatrale all’interno della casa circondariale di Prato. Da questa esperienza è nata la scintilla di Gioia, di cui Gionfrida è autrice e interprete, frutto dell’esigenza di portare in scena azioni e domande “in immagine e carne”, provenienti da dietro le sbarre e non solo.
Bianca: Questo spettacolo risente di qualche vissuto in particolare tra quelli che ha conosciuto in carcere?
Livia Gionfrida: In parte Gioia riguarda sentimenti e vite di persone che ho incontrato. Per esempio, ciò che succede al protagonista è accaduto realmente a un detenuto che conosco. Ma l’ispirazione arriva anche dall’osservazione concreta. La stessa idea di raccontare la relazione al centro dello spettacolo è scaturita da dieci anni vissuti all’interno di istituti penitenziari, dove spesso incontro madri che aspettano di poter parlare con i propri figli nell’orario dei colloqui. L’attesa di queste donne, la loro dignità e forza mi colpiscono molto. Al contempo, i detenuti mi hanno sempre parlato tantissimo delle madri, soprattutto nel carcere maschile. In più la trama prende spunto da fatti di cronaca, in primis dal caso di Stefano Cucchi ma anche da molte altre vicende.
Bianca: La donna che lei interpreta non riesce a farsi una ragione del destino infelice del figlio. Dov’è la gioia di cui si parla nel titolo?
Livia Gionfrida: Il mio personaggio è una madre che accetta suo figlio e lo ama incondizionatamente. Infatti in un passaggio del suo monologo è molto chiara nel dire che, nonostante sia una “testa di legno”, rimanga sempre suo figlio. Ne vede soltanto la tenerezza, al massimo gli chiede di comportarsi bene. Pur riconoscendone gli sbagli, lei non può che amarlo infinitamente. In Sicilia si usa chiamare “gioia” i propri figli. Una parola che diventa una specie di nome di battesimo per il protagonista, che il pubblico conoscerà soltanto così.
Bianca: Lei ha detto di non aver mai prodotto teatro sociale o civile. Come si spiega il suo approdo a Gioia?
Livia Gionfrida: Penso che forse sia un punto d’arrivo inevitabile: in tanti anni passati in un istituto penitenziario ho raccolto immagini, sensazioni, racconti. Anche da cittadina, certe vicende di cronaca mi hanno profondamente colpito. Non ho mai fatto teatro civile nella misura in cui non mi sono mai seduta su una sedia a raccontare, per fare un esempio, la storia di Cucchi. Il nostro spettacolo contiene comunque fortissimi riferimenti letterari e religiosi collegati alla passione di Cristo e alla fiaba di Pinocchio, che Collodi ha scritto guardando a sua volta alla Bibbia. Affrontiamo la tematica dell’abuso in divisa sfruttando immagini reali inserite in un quadro simbolico e universale, come l’amore di una madre per suo figlio. E come anche il sentimento di ingiustizia che tutti dovremmo provare quando una persona, con o senza colpe, finisce in croce.