Banca Etruria, “consulenze come operazione a cuore aperto. Questione di vita o di morte”
“Operazioni non ‘manifestamente imprudenti’ nel senso adottato dalla giurisprudenza di avventate o scriteriate o prima facie prive di ogni ragionevole probabilità di successo, né consumative di una parte notevole del patrimonio della Banca”: in “nessuna delle deposizioni testimoniali o nei documenti acquisiti è emerso che l’affidamento delle consulenze contestate abbia aggravato un dissesto in atto”, “a volersi sommare tutti tra loro” gli importi erogati per le consulenze contestate, “corrispondono allo 0,7%” del patrimonio della Banca, valore che se rapportato allo stesso, “non può costituirne notevole parte”. Così il tribunale di Arezzo nella motivazione della sentenza con cui il 15 giugno scorso furono assolti tutti i 14 imputati del processo per il filone delle cosiddette ‘consulenze d’oro’ nell’ambito dell’inchiesta sul crac dell’ex Banca Etruria. Oltre a Pierluigi Boschi, i giudici di primo grado hanno assolto, perché il fatto non sussiste, Luciano Nataloni, Claudia Bugno, Luigi Nannipieri, Daniele Cabiati, Carlo Catanossi, Emanuele Cuccaro, Alessandro Benocci, Claudia Bonollo, Anna Nocentini Lapini, Giovanni Grazzini, Alessandro Liberatori, Ilaria Tosti, Claudio Salini. Bancarotta semplice colposa l’accusa contestata dalla procura che aveva chiesto condanne da 8 mesi a un anno.
Le consulenze finite nel mirino della Procura erano quelle che vennero affidate per valutare, analizzare e poi avviare, il processo di fusione con un istituto di elevato standing: in tutto 4,5 milioni di euro, emersi dopo le indagini a cura della Guardia di Finanza. Le autorità bancarie, infatti, avevano richiesto di approfondire la possibilità di una fusione con la Banca Popolare di Vicenza, operazione che poi non si concretizzò. Per sondare la prospettiva di tale fusione, però, stando agli elementi raccolti durante le indagini, furono affidati incarichi per circa 4 milioni e mezzo di euro, in un arco temporale compreso tra il giugno e l’ottobre 2014, a grandi società, come Mediobanca, o rinomati studi legali di Roma, Milano e Torino. Secondo l’accusa definita dal pool di pm istituito dal procuratore Roberto Rossi, fu tenuta una condotta imprudente, con i vertici della banca che non avrebbero vigilato sulla redazione di quelle consulenze, ritenute dagli inquirenti in gran parte inutili e ripetitive. Ma il giudice ha dato oggi ragione alle difese: visto lo stato in cui si trovava la banca, “si trattava di un’operazione salvavita, quindi era necessario scegliere i migliori consulenti italiani”. Gli oltre 4 milioni spesi in consulenze e contestati agli imputati, sarebbero stati dunque “spesi legittimamente“, nel tentativo, poi risultato vano, di salvare l’istituto di credito aretino
Fu, così i giudici nelle motivazioni della sentenza, “‘un’operazione a cuore aperto’”, come “efficacemente definita da taluno dei difensori, per compiere la quale viene scelto il migliore team di esperti che lavorino in ‘consulto’ tra loro perché si tratta di questione di ‘vita’ (salvataggio) o di ‘morte’ (fallimento) e non si può sbagliare. Sotto questo profilo le consulenze servivano a evitare ciò che è poi accaduto” ovvero il dissesto, “peraltro per ragioni differenti”.