In morte di una fabbrica. E della politica

La ex Pirelli fu acquisita all’inizio del 2015 dalla multinazionale belga Bekaert, poi iniziò inesorabile la delocalizzazione in Romania, dove la mano d’opera costa un sesto. Un sesto. Per i dirigenti del quartier generale di Zwevegem (Belgio, Fiandre occidentali) del più grande gruppo mondiale produttore di “steel wire” (filo d’acciaio), 140 anni di storia, 28mila dipendenti in 45 Paesi, oltre 5,1 miliardi di fatturato annuo, i dipendenti dello stabilimento di Figline Valdarno sono solo numeri. Anche meno. E oggi i gerarchi hanno inviato 113 telegrammi di licenziamento a 113 lavoratori con 113 famiglie valdarnesi alle spalle. Sulle spalle. Se per un terzo dei dipendenti si è nel frattempo aperta l’opzione Laika, azienda con sede a San Casciano Val di Pesa (Fi) produttrice di camper, per gli altri si apre lo spettro della disoccupazione. Quel 22 giugno del 2018 in cui la multinazionale belga in fuga annunciò la chiusura improvvisa dello stabilimento di Figline Valdarno, la politica locale, regionale, anche nazionale, tutti presero l’impegno di scongiurare un dramma che coinvolgeva inevitabilmente centinaia di famiglie del Valdarno. Seguì la grande mobilitazione di più di 5000 persone nella manifestazione del 29 giugno per chiedere un intervento serio del Governo e della Regione, con l’avvio di un percorso alternativo allo smantellamento del sito produttivo a garanzia dell’occupazione. Tutti al capezzale della Bekaert, in una passerella senza soluzione di continuità. Possiamo tranquillamente parlare di passerella, senza timore di essere smentiti, se il risultato finale è questo. Allora meglio una canzone: anche Gordon Matthew Thomas Sumner, conosciuto da tutti come Sting, il “pungiglione”, il 18 agosto 2018 fece visita agli operai dell’azienda in presidio a difesa del posto di lavoro. Indossava la maglietta “Io sto con gli operai Bekaert” e intonò “Message in a bottle” dei Police. Ma il messaggio non è mai arrivato. Non è andata come “In guerra“, il film francese di Stéphane Brizé che racconta l’epica lotta per la difesa del posto di lavoro. Storia simile: dopo aver promesso a 1100 operai che i loro posti di lavoro sarebbero stati salvi in cambio di sacrifici economici, i dirigenti di una fabbrica decidono improvvisamente di chiudere i battenti. Laurent, uno degli operai, si batte in prima fila contro questa decisione, conducendo una lotta sindacale senza esclusione di colpi per reclamare diritti e dignità dei lavoratori. Film a lieto fine. Non in Valdarno. Qui vi sono responsabilità chiare dietro la chiusura della fabbrica: un ritardo di reazione della politica locale, regionale e nazionale, scarsa sintonia sindacale quando la Fiom, sostenuta da Legacoop, a maggio 2019 creò una cooperativa composta da 52 dipendenti, la Filcoop Valdarno, che aveva anche presentato un piano industriale. Ignorato. Soldi e tempo sprecati. Che dire poi della timida proposta attuale di recuperare alcune maestranze nelle acciaierie di Piombino? Di cosa stiamo parlando? Di spostare gli operai verso il Tirreno? Quasi 200 Km. e 2 ore e 40 di macchina separano il Valdarno da Piombino. Sa di cosa sta parlando chi ha citato questa ipotesi? Resta lo scheletro dell’ennesimo sito produttivo da bonificare. Restano decine di operai e famiglie privati di un qualsiasi reddito. Resta l’irresponsabilità di una multinazionale e quindi del modello globale che se funziona per i paesi poveri, nei paesi evoluti, se non è accompagnato da misure regolatrici, regala solo scompensi, un modello che ha prodotto questo scempio sociale. Restano, anche e soprattutto, pesanti come macigni, responsabilità politiche di chi ha promesso e non ha fatto.