Quando l’arte non cammina solo sul palcoscenico, ma anche tra le file del pubblico
Dal 3 al 7 ottobre si alza il sipario sulla terza edizione del Festival dello Spettatore, un contenitore di spettacoli, occasioni di approfondimento e formazione del pubblico promosso dalla Rete Teatrale Aretina.
Lo spettatore finisce per 5 giorni al centro di un fitto calendario di appuntamenti, dal teatro alla danza, passando per incontri, flash mob, convegni e proiezioni. Il messaggio non può essere più chiaro di così: l’arte non cammina solo sul palcoscenico dei teatri ma anche tra le file del pubblico. E avvicinare spettatori di tutte le età alla produzione di cultura fa bene ai singoli e alla comunità.
Una relazione virtuosa di cui è fermamente convinta Laura Caruso, tra le ideatrici del progetto di formazione al pubblico Spettatori Erranti e coinvolta nella direzione e nel coordinamento del festival.
Bianca: Perché dedicare un festival allo spettatore? Che filosofia c’è dietro al vostro lavoro?
Laura Caruso: Il festival è legato al progetto Spettatori Erranti, nato ad Arezzo nel 2010. In quel periodo il Teatro Petrarca era chiuso e c’era la percezione che il teatro fosse assente. Invece, soprattutto nella provincia, ci sono tanti piccoli teatri che vivono della generosità e del lavoro di compagnie che li abitano. Quindi abbiamo cominciato a creare una comunità di spettatori, cioè persone che vanno a teatro insieme. Il primo elemento è il gruppo: il teatro come occasione per creare scambio, relazione, confronto. Nel 2016 la Rete Teatrale Aretina ha proposto di organizzare un festival intorno al progetto. La comunità di spettatori, in dialogo con la scena, fa un lavoro che attiene molto alla cittadinanza. La scoperta degli spettacoli, la responsabilità di accompagnarsi l’un l’altro, la fiducia nella scelta di andare in un teatro dove non si è mai stati, l’esercizio di ascolto di una compagnia giovane. La seconda direttrice che seguiamo è l’immaginario. Uno spettatore che dialoga attivamente con le arti è anche un cittadino che vuole contribuire a far crescere la sua città.
Bianca: Nel migliore dei mondi possibili, come dovrebbe essere il pubblico perfetto?
Laura Caruso: Per me le caratteristiche più importanti sono la curiosità e la disponibilità. Noi chiediamo sempre ai nostri spettatori di disattivare il giudizio secco, “da Facebook” e entrare in modalità di interpretazione. Bisogna uscire dalla dinamica del “mi piace”/“non mi piace”. Non significa per forza aderire a ciò che l’artista voleva dire, ma invece valutare come quello che si è visto impatta sul proprio vissuto personale. In questo processo di interpretazione pensiamo che lo spettatore stesso diventi produttore di un pensiero culturale che magari non si esprime con uno spettacolo, ma nella vita.
Bianca: Che profilo avrà questa terza edizione?
Laura Caruso: Fin dall’anno scorso abbiamo voluto indagare più arti. Questo festival si concentrerà sul tema del vedere contemporaneo che sta cambiando: come ci rapportiamo agli stimoli che ci arrivano dall’esterno, quanto li dominiamo o ne siamo dominati. Sarà un’edizione fatta di persone che vengono da ambiti diversi della cultura ma lavorano per lo stesso obiettivo, cioè fondamentalmente rendere lo sguardo del pubblico consapevole, attento, empatico, costruttivo.
Bianca: Quanti gruppi di spettatori ci sono in Italia? Cosa fanno? Sono in contatto fra loro?
Laura Caruso: È sintomatico che molti artisti e organizzatori stiano attivando progetti con fisionomie diverse in varie parti d’Italia. In quello che ambisce ad essere il tempo della democrazia “immediatamente diretta” in realtà il ruolo della mediazione è molto importante. È per questo che tanti spettatori amano andare a teatro con altre persone, in certi casi operatori teatrali che non rendono la vita più facile ma creano delle connessioni che magari lo spettatore da solo farebbe più fatica a trovare. Per fortuna i gruppi sono tanti, noi ne abbiamo intercettati una ventina. In alcuni casi nascono da veri e propri progetti di formazione del pubblico, in altri dalle università. Oppure, semplicemente, il gruppo di amici che va a teatro insieme. L’importante è che siano persone che vengono qui perché desiderano condividere quest’esperienza. Ci piacerebbe che il nostro fosse anche un circuito informale di ospitalità e accoglienza reciproca.
Cosa possono fare le istituzioni aretine per stimolare un legame più affettuoso tra pubblico e spettacoli?
Laura Caruso: Penso che sia un bene che le esperienze nate dal basso a un certo punto incontrino le istituzioni, altrimenti c’è il rischio che si esauriscano. L’istituzione può creare le condizioni perché un’iniziativa prosegua, si evolva, si strutturi, magari diventi una buona pratica per qualcun altro grazie a dinamiche di rete. Devo dire che il Comune di Arezzo ci fornisce un partenariato più forte rispetto agli anni scorsi, anche perché ci permette di usare il Teatro Petrarca e la Fortezza Medicea. Per noi è un grande orgoglio poter portare spettatori che vengono da altre parti d’Italia nei luoghi più belli della nostra città. Questo è anche il frutto di istituzioni che in alcuni casi si mettono in ascolto e riescono ad andare incontro alle esigenze logistiche ed economiche delle varie realtà.