Elogio dell’impopolarità
Oggi è impopolare chi chiede il rispetto delle regole, chi dice che un paese che non produce non può consumare in eterno, chi afferma che la politica non è uno show.
Vien da pensare che avesse ragione Polibio: stiamo scivolando verso quella che lui definiva “oclocrazia”.
«Finché sopravvivono cittadini che hanno sperimentato la tracotanza e la violenza […], essi stimano più di ogni altra cosa l’uguaglianza di diritti e la libertà di parola; ma quando subentrano al potere dei giovani e la democrazia viene trasmessa ai figli dei figli di questi, non tenendo più in gran conto, a causa dell’abitudine, l’uguaglianza e la libertà di parola, cercano di prevalere sulla maggioranza; in tale colpa incorrono soprattutto i più ricchi. Desiderosi dunque di preminenza, non potendola ottenere con i propri meriti e le proprie virtù, dilapidano le loro sostanze per accattivarsi la moltitudine, allettandola in tutti i modi. Quando sono riusciti, con la loro stolta avidità di potere, a rendere il popolo corrotto e avido di doni, la democrazia viene abolita e si trasforma in violenta demagogia», (Le Storie, libro VI, cap. 9).
Per questo talvolta essere impopolari, non per snobismo ma per convinzione, è un dovere. Era impopolare chi nel 1936, dopo la conquista dell’Etiopia, criticava il regime fascista? Di sicuro lo era. Eppure sappiamo come è andata a finire.