La gabbia dorata del politicamente corretto
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È vero, “se tu non la pensi come me non cerco di approfondire le tue ragioni (dialogo) ma ti fanculo”. Ormai non si esprimono opinioni ma si decretano sentenze, privandoci giorno dopo giorno, di quella che gli antichi greci chiamavano l’Isegoria, cioè la possibilità di prendere la parola.
Siamo terrorizzati dall’idea di dover articolare un ragionamento lungo più di tre righe o di esprimere una convinzione appena contraria al sentire comune. E questo è ancor più marcato in un mondo mediatico dove ogni vocabolo è pesato, filtrato, analizzato dal setaccio del “politicamente corretto”.
Sto esagerando? Mi piace esagerare. Tuttavia non credo di sbagliarmi di tanto. Se mi guardo intorno mi rendo conto che abbiamo per davvero paura di parlare e stiamo zitti e muti perché basta una virgola fuori posto per essere fatti a fette. Con il politicamente corretto, qualunque parola mal interpretata o mal detta, anche la più innocente, rischia di metterti nei guai e di trasformarti nel mostro di Loch Ness.
Il politicamente corretto è un treno partito bene ma che, prendendo velocità, rischia a ogni minuto di deragliare. Una cosa che era nata per liberare il linguaggio si è trasformata in una prigione, imponendo una nuova serie di standard morali, comportamentali e perfino etici che danno vita a un altro e ben peggiore conformismo. Facendoci dimenticare che la parità e l’inclusione non si misurano solo sul lessico, ma si misurano soprattutto sui fatti.
Sarà che ormai sono un vecchio trombone, però guardando ai corifei di questa “nuova” stagione non posso che rammentare quella strofa di Guccini: “Facciamola finita, venite tutti avanti/Nuovi protagonisti, politici rampanti/Venite portaborse, ruffiani e mezze calze/Feroci conduttori di trasmissioni false”.
Si, venite pure avanti, io non vi sopporto più, perché sempre più spesso con la vostra supponenza, la vostra alterigia, la vostra ipocrisia mi fate venire in mente pensieri che non condivido.