La rivolta del pane
Quello che in questi mesi sta accadendo per pane e pasta, beni che stanno alla base della piramide dei bisogni, è indice della febbre che cresce. Il raddoppio del costo delle farine, abbinato all’aumento dell’energia, colpisce insieme imprese e consumatori, una circostanza inedita, che non può andare avanti a lungo. Come se ne esce? Con una cosa che ormai sembrava relegata nei sarcofagi della storia: con la politica. Un recente sondaggio mostra che la gente è meno stupida di quanto un certo giornalismo caciarone vorrebbe far credere. Il 60% degli italiani afferma, senza tentennamenti, che la politica è importante, però, al tempo stesso, il 60% dichiara di non sentirsi rappresentato da nessuno. Questo è il problema, perché non esiste politica senza rappresentanza e non esiste rappresentanza senza politica. A questa richiesta non rispondo oggi i partiti, ormai sfibrati, assoggettati a vincoli feudali, impoveriti intellettualmente e senza una visione del mondo che vada oltre le ventiquattro ore. Ma non ci salveranno nemmeno i cantori delle “magnifiche sorti e progressive “di cui sarebbero portatori il PNRR, il Recovery plan, con tutte quelle montagne di soldi che somigliano alle miniere del re Salomone. Guardiamoci in faccia, non è piantando aiuole o costruendo sottopassi che l’economia riparte. Riforme e investimenti vanno di pari passo e senza investire nella produzione siamo fregati. Si può ragionare quanto ci pare ma se autobus e pannelli solari, tanto per fare un esempio, li compriamo dalla Cina e non li produciamo noi, il cielo rimarrà di piombo. Il nostro è un paese che stagna, che non pensa al domani, che si crogiola nei propri vizi, trasformandoli in virtù, un paese dove i “furbettini” contano più dei cervelli e infatti quest’ultimi se ne vanno all’estero. In questa situazione una moderna “rivolta del pane” non è poi così improbabile.