Laterina su sfondo Gioconda, Viscovo non ci sta: “La politica vuole cambiare la storia”

“Prendo visione con rammarico, ma non sorpreso – dichiara il consigliere comunale Renato Viscovo – di quanto dichiarato alla stampa sul presunto ponte ritratto alle spalle della Gioconda di Leonardo Da Vinci, con il solo ed unico scopo di valorizzare turisticamente e culturalmente un’area tralasciata ed abbandonata dall’amministrazione di Laterina, che gode evidentemente di scarsa progettualità e lungimiranza, tentando addirittura di provare a cambiare la storia. Questi studi/dichiarazioni, potendoli definire tali, sono uno sfregio alla cultura e alle ricerche del professor Carlo Starnazzi, che ricordo, nel 2003, esser stato invitato a Londra a far parte della Commissione Mondiale per gli studi su Leonardo e nel 2005 è stato coinvolto nel programma Mostre d’Arte dalla Direzione Generale del Consiglio d’Europa, purtroppo deceduto nel 2007. Qui di seguito elenco una serie di riflessioni riportate dallo stesso Starnazzi nel volume “Leonardo e la terra di Arezzo” edito da Calosci editore di Cortona; sulla base di quanto detto invito la Sindaca e la sua Giunta a prendere visione di quanto riportato alfine di avere un’ampia conoscenza che indurrà i suoi progetti ad essere fiorenti, piuttosto che tentar di cambiare ciò che il passato ha commesso”.

“I primi interventi critici sul paesaggio della Gioconda compaiono soltanto dopo la prima metà dell’Ottocento e riservano ad esso un’attenzione ed un’importanza non inferiore a quella del ritratto, come in Théophile Gautier che, rendendo il ritratto una icona del mito della «femme fatale», pose in evidenza la descrizione dettagliata di quel paesaggio alla maniera di quelli del Mantegna.’

Nella descrizione vasariana, la Gioconda viene resa un modello di perfezione irraggiungibile «da far tremare e temere ogni gagliardo artefice e sia qual si vuole», mentre il paesaggio non viene mai menzionato né esso compare nella prima edizione a stampa in versione francese del Trattato della pittura di Leonardo, pubblicato a Parigi nel 1651, dove Monna Lisa è raffigurata come corredo testuale del capitolo 287, scontornata su fondo bianco.

Nel 1933, Maria Teresa Dromard Mairot annotò che il pittore, «tornato a Firenze, aveva guardato negli occhi la magia dei luoghi dell’Italia del Nord, Facendo seguire una lunga descrizione della Val di Cadore e dell’Isonzo corrispondente alla parte montuosa del paesaggio. Prima di Leonardo, i pittori italiani eseguono i ritratti di profilo o frontali, con il busto a tre quarti e con le mani che sostengono un oggetto o sono congiunte in preghiera, mentre il paesaggio si ferma all’altezza del collo ed il volto si libra in cielo. Nella stessa epoca i fiamminghi fanno salire il paesaggio ancora più in alto e spesso gli consentono di occupare la totalità dello sfondo.

Charles de Tolnay sviluppò, nel 1952, questa osservazione sostenendo che nello sfondo si trovano due paesaggi. Il primo, fermandosi secondo la tradizione italiana all’altezza del collo e rappresentando il mondo abitato dagli uomini, risulta molto vicino ai paesaggi di Alesso Baldovinetti (Natività; La Vergine in adorazione del Bambino) e di Antonio del Pollaiolo (Il ratto di Deia-nira; Il martirio di San Sebastiano), con strade e fiumi serpeggianti. L’Artista vi avrebbe usato un tono più caldo, brunastro e rosso cangiante in verde oliva trasparente. Il secondo paesaggio del quadro, situato dietro e sopra la testa della Gioconda, sale molto in alto, con un colore azzurro pallido. Qui lo sguardo evade dal piano della realtà, nello spazio e nel tempo, verso un mondo in cui il vapore sembra materializzarsi al di sopra di un azzurro trasparente e Cristallino. È un sogno cosmogonico, un’ ascensione nel tempo e nello spazio: la genesi del mondo, dove il movimento circolare impresso alla metamorfosi della natura, è continuato dalla rotazione del busto della Gioconda e condotto a termine dal gesto del suo braccio,” preannunciato sul piano iconico nel ritratto in cartone di Isabella d’Este (Parigi, Museo del Louvre, Gabinetto dei Disegni), eseguito intorno al 1500, dove la marchesa è presentata con il busto quasi di prospetto e il volto di profilo verso destra.

Da tutto ciò si potrebbe immaginare e dedurre che il primo paesaggio, e soltanto il primo paesaggio, sia toscano, mentre il secondo risulterebbe una rievocazione dei luoghi alpini. Ancora, nel 1967, Angela Ottino Della Chiesa affermava con convinzione che questo paesaggio «non è lungo le rive dell’Arno, ma in Lombardia, nell’atmosfera autunnale densa di brume», dove indirizzerebbe la vaga somiglianza con certi disegni di Leonardo, che ripropongono la campagna dell’Adda, all’uscita del lago di Lecco. Nel 1995, una mostra fotografica, allestita con tanto di catalogo al Castello Sforzesco, mostrava, sulla filigrana di certe indicazioni già fatte da Francesco Malaguzzi Valeri,’ il ponte della Gioconda con caratteristiche simili a quello che Azzone Visconti aveva fatto costruire sull’Adda, nel 1338, mentre considerava che, le vette descritte oltre la destra della dama, riproducevano le cime frastagliate della Grigna, che sovrasta Mandello Lario.

Si è voluto anche pensare che lo sfondo della Gioconda sia stato realizzato in due tempi: Leonardo avrebbe dapprima dipinto il paesaggio toscano, che si ferma all’altezza del collo come si ritrova in un disegno a penna e inchiostro di Raffaello, oggi al Museo del Louvre (Ritratto di fanciulla al balcone), indiscutibilmente eseguito nel 1504, dopo uno studio sulla Gioconda a Firenze, o nella Maddalena Doni (Firenze, Palazzo Pitti) e nella Dama col liocorno (Roma, Galleria Borghese) sempre di Raffaello, eseguiti tra il 1504 e il 1506. Qui, nelle due mezze colonne ai lati, nelle mani incrociate e nel relazionarsi della figura con l’osservatore, si ricalca puntualmente ed in modo inequivocabile, per la straordinaria novità rispetto alla pratica ritrattistica moderna e fiorentina, l’impianto compositivo leonardesco, ravvisabile altresì in un certo numero di «Gioconde», attribuite a Leonardo o ai suoi collaboratori, quale quella del Prado a Madrid e di Isleworth in Gran Bretagna.

Invece il supposto paesaggio lombardo, nella parte alta del quadro, sarebbe stato aggiunto in un secondo momento. Ma questa ultima considerazione urta con una precisa obiezione, che insorge dal modo di operare e dalla assoluta novità del concetto di spazio in Leonardo: il paesaggio è visto a volo di uccello e forma pertanto un insieme coerente sul piano geomorfologico.

Questa continuità perfetta vuole che esso sia stato dipinto in un solo sussulto dell’anima e dunque dopo il ritratto della donna, tra il 1503 ed il 1504, nello studio di Firenze, allorchè Leonardo poté avvalersi di schizzi, bozzetti o richiamò alla memoria quelle recenti suggestioni, che gli erano state provocate dall’esperienza in terra di Arezzo, per realizzare un «retracto al naturale», diverso da quelli senza vita della tradizione italiana e fiamminga.

Il paesaggio, visto a volo d’uccello, consente di affermare che Leonardo percorse con vivo interesse questo territorio, rappresentato nelle citate carte di Windsor e compresso verticalmente in una potente sintesi unitaria e coerente sul piano geomorfologico, atto a suggerire un’ascensione nello spazio e nel tempo, per dare fondamento visivo al concetto di cosmogenesi, alla creazione del mondo nella sua preistoria più remota dove, all’alito divino biblico, si sostituisce una forza cinetica interna alla materia che, insieme all’acqua e al tempo, si fa responsabile della sua animazione e trasformazione.

L’impianto figurativo è sostenuto da una visione circolare portata a termine dal braccio della donna attraverso un ponte, il Ponte di Buriano, situato in un particolare tratto dell’Arno nelle vicinanze di Arezzo, la cui immagine si amplificava e si rendeva ancor più vibrante nella mente di Leonardo, per l’intensità descrittiva contenuta nei sublimi versi della Commedia (Pg XIV 46-50). 10 I ponte, destinato a veicolare sul piano simbolico l’eterno legame tra mondo divino e mondo terreno, tra piano umano e piano naturale, trasmetteva l’idea della continuità di uno sviluppo fenomenico che, iniziato nel più remoto passato, continuava con energia immutabile ad operare nel tempo presente.

Storicamente, il Ponte di Buriano risulta uno degli esempi architettonici più significativi e più importanti che il Medioevo ci abbia consegnato, senza aver subito manomissioni di rilievo. La sua costruzione, come quella iniziale del Duomo nuovo e del Palazzo del Popolo, risale al 1277, quando era vescovo di Arezzo Guglielmino degli Ubertini e la città attraversava un tale periodo di splendore e di prosperità economica da conservare, per le figure di Guittone, Ristoro, Margarito il primato culturale in Toscana. Il ponte, a schiena d’asino e di stile romanico, con le sue potenti arcate a sesto ribassato e di luce diversa, dove il raggio mediano della centrale costituisce asse di simmetria del complesso, si proietta con originalità ed armonia, per i volumi pieni e vuoti, tra le sponde dell’Arno.

Su di esso giungeva una delle più importanti vie consolari, la «Cassia Veyus» che, giungendo da Roma e raccordando Arezzo con Firenze, assegnava al ponte un’importanza strategica sia per le attività commerciali come per le operazioni militari, in quanto eliminava lunghe soste e faticose deviazioni in caso di alluvione. La raffigurazione del ponte nello sfondo della Gioconda rispecchia il gusto per il dettaglio e per il particolare, poiché Leonardo, riproponendone un’immagine dal profilo leggermente arcuato, impianta il muro andatore di innesto delle arcate proprio sulla sponda destra dell’Arno e raffigura le arcate stesse con luce diversa, mentre riduce il loro numero rispetto alla realtà, perché visibilmente coperto dalla spalla sinistra di Monna Lisa.

Anche l’importanza del muro andatore risulta ben evidenziata poiché, essendo questo parallelo al ponte, aveva la funzione di contenere la spinta del terrapieno, della massicciata e al tempo stesso di tener rialzato, in caso di massima piena, il piano stradale. La differenza della luce degli archi, variabile dai 20 ai 16 metri, sarebbe imputabile alle robuste travi, più o meno lunghe, impiegate per l’impalcatura. La forma imponente ed armoniosa del manufatto attrasse, circa 80 anni dopo, anche l’attenzione di Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) che, percorrendo l’Italia, dopo una sosta all’osteria del Ponte di Buriano, lo definì nel suo Diario di viaggio, pubblicato soltanto nel 1774, «un lunghissimo e bel ponte di pietra».

D’altro canto la raffigurazione del manufatto è corrispondente alla realtà, poiché la profondità del campo visivo rispetta i principi della prospettiva e ripropone le proporzioni del Ponte facendo presumere una distanza visiva di oltre 2 Km dal punto di osservazione. Tale punto di osservazione, in base alla ricostruzione digitale in prospettiva aerea della stessa volumetria del ponte e della orografia circostante, desunta dalla carta topografica della Regione Toscana in scala 1:5000, risulta individuabile nel castello di Quarata (a 70 m di altezza rispetto all’alveo dell’Arno), dove si trovava il quartier generale di Vitellozzo Vitelli e che Leonardo disegnò nelle mappe di Windsor (RI 12682 r; 12278 r).

Di qui si coglie la stretta analogia ed una coincidenza più che persuasi-va, se non altamente probatoria, pur nella trasposizione pittorica, tra il corso dell’Arno, il dilagare in esso della Chiana, la posizione e la configurazione

Stessa del Ponte, con le arcate di luce diversa e con il muro andatore collocato proprio sulla sponda destra dell’Arno, nonché la svolta a destra compiuta dal fiume maestro, poco dopo il ponte, sotto lo sperone di Monte Sopra Rondine. Cosi questi elementi reali, sebbene trasfigurati all’interno di un discorso mentale che tende ad allontanarli dalla realtà di partenza, di fatto rivelano il fondamento figurativo in conseguenza di un’attenta osservazione, risola nella descrizione infinitesima dell’oggetto.

La stessa foto all’infrarosso, eseguita dal Laboratorio del Louvre, nel 1953,” e che riproduce il particolare del fiume serpeggiante (e non di una strada), retrostante la spalla destra di Monna Lisa, mostra come nella gola (di Pratantico) le acque, uscendo dal grande invaso, debordino con «impeto» quasi spumeggiando sulla sponda delle prime rocce, mentre nell’opposto sperone si formano rivoli, atti a suggerire l’aumento della velocità delle acque per la pendenza del canale della Chiana, il cui collegamento terminale con l’Arno è distinguibile, anche se quasi interamente coperto dalla figura della donna. In realtà questo canale, dopo la Chiusa dei Monaci, precipita con una pendenza che è la più forte di tutto il suo precedente percorso, poiché da una quota di 235 metri s. l. m. subisce una vera e propria caduta verticale, per poi degradare in modo uniforme verso l’Arno, il cui alveo si trova a 201 metri s. l. m.

In questa ripartizione sistematica delle acque, la fissità stagnante della palude delle Chiana e l’impeto subitaneo dell’acqua nel meandro del canale, fanno intravedere l’interesse dello scienziato, proteso a suggerire gli effetti della trasformazione dell’energia potenziale nell’improvviso spumeggiare del moto, per ‘interrelazione costante tra atte e scienza. Oltre tutto, una siffatta sistemazione idrogeologica non è aliena dallo scrupolo del geologo che vuol rispettare i differenti piani altimetrici proposti nella prospettiva aerea dello sfondo. In verità, tra l’alveo del canale della Chiana a Pratantico e quello dell’Arno al Ponte di Buriano esiste un reale e rapido dislivello di circa 35 metri.

Una ripartizione così perfetta delle acque era senz’altro conseguente alla familiarità dell’artista con la regione e per di più tanto corrispondente alla sua filosofia naturale che egli non esitò a trasferirla come argomento figurativo dello sfondo della Gioconda. In essa potremmo dire che Leonardo aveva raccolto quella «adaequatio rei et intellectus» che lo faceva interprete di un’aderenza assoluta alla cosa, vera o immaginata che sia, ma capace di fargli cogliere e riferire, oltre l’apparenza fenomenica, la ragione stessa degli eventi, poiché l’aartista come un nuovo Pitagora o Ermete, mago e mediatore tra i segreti della natura e gli uomini, trasmette con la pittura alla nostra anima le forme vive della realtà.

Il lungo studio delle acque maturò le osservazioni di Leonardo sulla natura del mondo vivente e sulla ricostruzione dei paesaggi del passato (CA, f. 126 vb [350 r]): io truov<o> il sito della terra essere ab antico nelle sue pianure tutto occupato e coperto dall’acque salse, e i monti, ossa della terra, colle loro larghe base penetrare e elevarsi infra l’aria coperti e vestiti di molta e altra terra.

La Terra, nel corso delle ere geologiche, veniva a subire una continua trasformazione per l’azione erosiva dell’acqua, «vetturale della natura» (cod. Arundel, f. 57 m), come aveva ben individuato in quel grande laboratorio geologico e paleontologico del «Valdarno di sopra». Qui, il consistente accumulo dei sedimenti negli apparati di delta-conoide era stato prodotto dalla dorsale del Pratomagno per i numerosi e ripidi corsi d’acqua torrentizi (cod. Hammer, f. 9 r, 9A): questa valle riceve sopra il suo fondo tutta la terra portata dall’acque di quella intorbidita, la quale ancora si vede a piedi di Prato Magno restare altissima, dove li fiumi non l’àn consumata.

I terreni di questa fascia territoriale, costituiti da argilla, sabbia e ciottoli, sono stati sottoposti nei millenni ad un processo di erosione che ha dato origine alle suggestive ed imponenti pareti verticali di terra di colore giallastro, alte anche oltre 80m, che si susseguono tra le località di Laterina e Vitereta, come tra Castelfranco e Pian di Scò lungo il percorso della Cassia Vetus.

Queste balze, cosi fortemente incise, provocarono lo stupore di Leonardo e la sua curiosità investigativa, per cui a conclusione della sua rigorosa indagine geologica, si pronunciava anche sulla

potente capacità di rosione e di trasmutazione della realtà insita nell’acqua: «e infra essa terra si vedono le profonde segature de’ fiumi che quivi son passati» (cod. Hammer, f. 9 t; 94).

Lo stesso Montaigne, riproponendo come Leonardo l’immediato rapporto tra acqua e terra, coglieva con vivo stupore l’insolito carattere aspro e scosceso di quell’andirivieni ininterrotto di calanchi dalle guglie frangenti: «Dopo pranzo, proseguimmo per una lunga pianura, completamente interrotta da orribili crepacci creati in modo strano dalle acque». 12

Pertanto il continuo susseguirsi di guglie e di creste sui crinali di questo paesaggio valdarnese, associato alla nudità dei loro ripidi versanti, interessati da frane di crollo che tendono incessantemente a modificarle, ben si adattavano ad evocare, come espressione pittorica, il concetto vinciano dell’animazione e della genesi del mondo, dove la Necessità divina, come energia nascosta e primigenia, imprime alla materia il flusso della vita ed il suo eterno processo di trasformazione.

Un concetto che la durezza fredda e compatta delle rocce alpine, ormai prive di malleabile plasticità, non avrebbe saputo più trasmettere e suggerire.

Del resto, lo stesso Eugenio Garin evidenziò l’influenza esercitata su Leonardo dall’aristotelismo filosofico-scientifico del dotto bizantino «messer Giovanni Argiropulo», traduttore del De coelo e della Phisica dello Stagirita, come dalla teoria della «dynamis o enérgeia kinetiké» di Filopono, molto vicina alla teoria dell «impeto» di Buridano, nonché le consonanze suggestive che egli ebbe col tema ficiniano-ermetico dell’animazione universale, data la sua conoscenza del Pimander in un volgarizzamento derivato dalla traduzione del resto in latino da parte di Marsilio Ficino, nel 1463.

Leonardo, nell’esaltare l’arte della pittura come la regina delle scienze, era sostenuto dal pensiero che la creatività dell’artista ne rende l’opera simile a quella di Dio, e che Dio e la natura governano la realtà seguendo leggi razionali (Ms. Al, f. 20 r). L’artista non era attratto dal tempo della storia degli uomini, mondo minore, ma da quello vastissimo della preistoria del creato e delle grandi trasformazioni geologiche prodotte dal moto universale, in cui trasferisce, con accenti di vibrante poesia, la sua interpretazione scientifica e immanentistica del mondo fisico.

Quindi, il mondo del Valdarno Superiore, rievocato nella sua mente, fu finalizzato a significare l’impressionante cosmogenesi, colta nel processo dinamico della sua attualizzazione. I picchi dello sfondo che si elevano tra luce ed ombra, tra caos e cosmo, propongono l’evoluzione del mondo dall’istante della sua nascita al momento dell’attualità e del suo futuro più lontano nel tempo. Si trattava di un paesaggio frutto di profonda meditazione, una narrazione «biologica» di forme naturali, dove la Terra come un organismo vivente con la rete di capillari, vene e arterie, vede l’innalzarsi primordiale dei «monti infra l’aria», in un ciclo di evaporazione, precipitazione, erosione determinante l’intera vita cosmica.

Proprio l’acqua con il suo graduale ed incessante moto tornava ad essere, tra aria e terra, l’elemento che crea e disgrega, mentre si originava la materia sotto la spinta di un’energia divina che rende tutto armonico e ordinato. L’acqua, con il suo dinamico moto, consuma «l’alte cime dei monti», allo stesso modo con cui «i gran sassi discalza e remove» (cod. Arundel, f. 57 ro), mentre si lega al fluire e alla fugacità del tempo, divoratore di tutte le cose (CA, f. 71 ra 195 r). La dinamica di questi processi geologici viene quindi a correlarsi con la mobilità impressa nei tratti ambigui e mutevoli della Gioconda che, energia Vitale del mondo, resa visibile per essere contemplata, trattiene il segreto del lanima e lo fa cogliere, con il suo impercettibile sorriso, nella tensione di quel misterioso divenire cosmico trasmesso dallo sfondo, che è stupenda sintesi riflessa del sapere e dei sogni di Leonardo”.

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