Sui 100 anni del PCI/2: Sono stato parte: la parte che voleva cambiare il mondo

e nella quale la dimensione esistenziale non è andata di pari passo con la dimensione storica. E questo talvolta ha prodotto, assieme a tanti entusiasmi, anche delusioni e sconfitte. Oggi avverto in tante letture un sentimento collettivo di nostalgia generazionale. Ora, se coltivata privatamente, la nostalgia è un sentimento come un altro, ma quando diventa collettiva assume diverse sfumature. La più generosa è il fatto di ripensarsi, parlo come generazioni del Novecento, come ex-rivoluzionari. In realtà, abbiamo molto parlato di rivoluzione, ma non siamo stati mai veri rivoluzionari. Per lo meno la nostra non è mai stata una prassi della rivoluzione. Solo per utilizzare un’espressione che appartiene a quei tempi. Per quanto mi riguarda, sono stato parte di una comunità che ha contribuito, non da sola, a sconfiggere il fascismo e dare al nostro Paese la Costituzione più avanzata dell’occidente. Sono stato un militante comunista, questo sì. Perché militante? È giusto usare questa parola così desueta e antiquata? È una parola che ho amato molto e che amo ancora, oggi che non mi serve più. Quando la pronuncio sento ancora un’emozione che assomiglia a quando la scoprii da ragazzo iscrivendomi al PCI nel lontano 1962. Era un libero legame – riprendo questa espressione dal bel libro di Mario Tronti – che ci univa in un’unica famiglia, visibile perché praticata fuori, invisibile perché coltivata dentro: quella del movimento operaio di segno comunista. “Comprendo come non lo possa capire chi non ha attraversato quella esperienza. Non è una colpa, però è una mancanza. E allora non comprendo perché, non avendola vissuta, ci si permetta di dileggiarla. Ecco, questo non va intellettualmente tollerato. Ecco, la dico così: tutti coloro che si sentono sull’onda della storia che avanza, sono come gattini che di notte, abbagliati dai fari, si lasciano investire da una macchina spietata. E dico una cosa di cui sono convinto e di cui non m’importa di convincere altri: solo chi è stato comunista nel Novecento può vivere oggi fino in fondo la condizione di spirito libero. Poi spiriti liberi ce ne sono, e ce ne sono stati, ben al di fuori di quella esperienza. Ma l’essere stato comunista nel Novecento ha lasciato in eredità un patrimonio di pratica spirituale, di libertà di pensiero che, certamente, non dà nessuna delle tante libertà concesse dai sistemi democratici. Chi non ha avuto la fortuna di vivere quella condizione, penso alle nuove generazioni, dovrebbe appropriarsene nel corso della sua formazione”. Chi ha letto il mio libro “Quell’idea che ci era sembrata cosi bella” sa bene che non ho avuto tentennamenti nella ricerca delle ragioni sulla sconfitta storica della parte in cui aveva militato. Ecco, ancora oggi, in giorni in cui la mia adesione consiste solo nel rinnovare la mia debole fiducia a partiti o movimenti che di militanti non sanno davvero nulla, mi piace considerarmi un vecchio militante. È come dire: sono stato nella storia dei comunisti, non solo nel senso generico di appartenenza al PCI, ma perché ho partecipato agli eventi. Sono stato parte: la parte che voleva cambiare il mondo. E certo, la passione ha oscurato lo spirito critico, la capacità di guardare le cose come stavano. Eppure, ancora oggi dirsi militante, esserlo stato di un grande partito che ha difeso la democrazia è le ragioni dei lavoratori, significa dare una risposta alla mediocrità̀ di questi tempi. Affermare ancora una volta che sono cambiato ma non ho abiurato.

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