La medaglia al valore militare degli eroi della Chiassa e il bambino testimone del 29 giugno 1944
che il 29 giugno del 1944 salvarono la vita a 200 persone sequestrate e rinchiuse dai tedeschi nella chiesa del paese.
Un riconoscimento atteso da anni e ottenuto anche grazie allo storico Santino Gallorini, autore del libro “Vite in cambio”. Per ricordare quei giorni proprio al culmine del suo impegno per il riconoscimento ai due eroi partigiani, Santino Gallorini un anno fa postava su Facebook un estratto delle memorie fissate da chi scrive, allora bambino ribattezzatosi Bruno. Sul suo profilo Santino Gallorini scriveva
” Propongo questo scritto di Romano Salvi, testimone di quel 29 giugno 1944.
Un omaggio a Gianni Mineo e Giuseppe Rosadi – Gli EROI dei “giorni della Chiassa”.
Fra pochi giorni è festa, ancora più che di domenica: è la festa di San Pietro e Paolo, ma la mamma ha già detto che non ci sarà la messa, perché tutti hanno paura di andare in chiesa e in paese.
Lì ormai ci sono solo tedeschi.
Bruno non ce la fa più a restare in casa , una mattina scende le scale di corsa e non riesce a fermarsi prima dell’ultima rampa: batte la testa contro il muro e resta stordito sulle pietre del pianerottolo.
Ha una ferita sulla fronte che non smette di perdere sangue.
La mamma lo prende in braccio, gli lava la ferita, la protegge con un panno bagnato, ma è troppo profonda perché si possa sperare che si rimargini da sola.
Il babbo conosce un infermiere che abita in un paese a valle verso la città: ma c’è da camminare per due chilometri: il peggio è che c’è da passare per la strada dove scorrazzano i tedeschi.
Fa caldo e Bruno cammina per i campi, insanguinato e dolorante accanto al babbo che lo tiene per mano.
Quando la strada è ormai a pochi passi, il babbo si accovaccia con Bruno su un campo di grano che nessuno si è preoccupato di mietere, per nascondersi dai tedeschi : passano in moto con la carrozzina, passa anche un camion sul quale i tedeschi hanno fatto salire tutte le persone che hanno scovato in casa e fuori.
Quando la strada sembra libera, il babbo si alza dal nascondiglio, prende per mano Bruno e l’attraversa di corsa.
Bisogna evitarla e allungare il cammino per arrivare alla casa dell’infermiere dalla parte opposta, tornando indietro dalla strada asfaltata che arriva dalla città.
Il babbo si ferma con Bruno, di nuovo nascosti, questa volta dietro un muricciolo di una casa abbandonata, prima di attraversare anche la strada asfaltata e risalire alla casa dell’infermiere attraverso i campi che costeggiano la strada asfaltata.
Bruno ora ricorda solo-le fitte delle grappette che l’infermiere gli ha cucito sulla fronte dopo avergliela spalmata con un liquido che gli attenua il dolore.
Nulla ricorda di come è tornato al casolare.
Deve aver camminato come un automa guidato dal babbo: solo il babbo sa come hanno fatto ad evitare ancora i tedeschi.
Bruno saprà solo dopo anni perché i tedeschi stavano catturando uomini, donne e bambini per trasportarli sul camion verso la chiesa del paese dove andava la domenica a messa, la Chiassa Superiore.
E solo dopo anni saprà che, se i tedeschi lo avessero scoperto insieme al babbo, sarebbe stato rinchiuso nella chiesa insieme ad altri duecento ostaggi, in attesa di una fucilazione di massa.
Sono i giorni della Chiassa, giorni del terrore sotto la minaccia di un’altra delle stragi compiute nel territorio aretino dalla ferocia dei nazisti quando ormai a fine giugno del 44 , la città, Arezzo, stava per essere liberata.
Tutto era cominciato il 26 giugno, tre giorni prima di San Pietro e Paolo, con la cattura sulla strada che porta dalla Chiassa ad Anghiari di un colonnello tedesco, Maximilian von Gablenz, e del suo aiutante da parte di un gruppo di partigiani, comandato da uno slavo, senza collegamenti con il comando della brigata garibaldina “Pio Borri” che in quella zona coordinava le operazioni contro i tedeschi in ritirata.
Quello che Bruno aveva visto, nascosto con il babbo in un campo di grano, era il rastrellamento di alcuni dei 500 civili catturati dai tedeschi per rappresaglia contro il rapimento del colonnello, e in gran parte, più di duecento, rinchiusi dentro la chiesa sotto la minaccia di una esecuzione di massa se il colonnello non fosse stato riconsegnato entro 48 ore.
I partigiani italiani della Pio Borri, di fronte alla minaccia, avrebbero voluto che l’ufficiale tedesco fosse rilasciato: ma il colonnello era nelle mani dello slavo che voleva fucilarlo.
L’ultimatum stava per scadere, quando un partigiano della Pio Borri, Gianni Mineo, infiltrato tra i repubblichini e munito di un lasciapassare, si presentò al comando tedesco per chiedere la dilazione di 24 ore dell’ultimatum. Intanto in chiesa gli ostaggi, e fuori i loro familiari, urlavano per la disperazione.
La richiesta di Mineo, che stava rischiando di essere scoperto nelle sue vesti reali di partigiano, dopo lunghe trattative, venne accolta dal comando tedesco ancora in città. In 24 ore Mineo doveva riuscire a trovare lo slavo e la sua banda sulle montagne sopra la Chiassa e convincerlo a farsi consegnare il colonnello.
Era orma il giorno di San Pietro e Paolo, il giorno della scadenza della dilazione dell’ultimatum: Mineo alla fine riescì a convincere il partigiano slavo, noto come “Il Russo”. Si avviò verso la Chiassa insieme a un altro partigiano, Giuseppe Rosadi, con il colonnello claudicante: passavano i minuti, il cammino ancora lungo, e il colonnello non ce la faceva. Scrisse un biglietto, lo firmò e lo consegnò a Mineo perché corresse verso il paese incontro ai tedeschi: quando arrivò avevano già fatto uscire i primi ostaggi per fucilarli. Nel biglietto firmato c’era l’ordine del colonnello di sospendere l’esecuzione. Quando in fine arrivò con Rosadi, ordinò il rilascio di tutti gli ostaggi.
Alla Chiassa, davanti alla Chiesa, a settanta anni di distanza, è stata apposta nel corso di una cerimonia, alla presenza di un rappresentante del governo, una targa in ricordo della strage evitata grazie al coraggio dei due partigiani Mineo e Rosadi.
La piazza era piena di gente: c’era anche qualcuno che, allora bambino, aveva vissuto quei giorni dentro la chiesa.
Alla cerimonia c’era anche Bruno: settanta anni prima avrebbe potuto essere tra quei bambini rinchiusi nella chiesa.