Arezzo, la parola resa non può e non deve far parte del nostro vocabolario
Alla fine anzi c’è da gioire (si fa per dire ) del punto conquistato in rimonta, perché sino a cinque dalla fine si profilava lo spettro dell’ennesima batosta. Lo stato d’animo ed il senso di infinta frustrazione che ci prende nell’osservare le partite degli amaranto lo ha ben espresso ieri Massimo Gianni su queste pagine. Oggi, alla vigilia di una sfida sulla carta estremamente proibitiva come quella di Padova, proviamo a fare un ‘analisi tecnica di quanto visto in campo domenica e più in generale del momento della squadra. L’Arezzo continua a subire gol con frequenza allarmante e con facilità disarmante. E’ una costante che ci accompagna dall’inizio del campionato, sebbene siano cambiati ripetutamente gli interpreti ed i dettami tattici. 49 gol subiti sono una montagna. Se li andassimo ad analizzare tutti, vedremmo che la maggior parte sono frutto di disallineamento, disattenzioni, amnesie, sviste, ritardi. I tre che ci ha inflitto il Carpi sono una sintesi plastica che tutti li racchiude: un pasticcio per ansia eccessiva sul primo, il gioco della “bella statuina” nel secondo, l’errato posizionamento sul terzo. Finché a sbagliare erano Cipolletta e Bonaccorsi, Maggioni o Mosti potevi (col fegato che rosolava) prendertela con la somma tra inesperienza e inadeguatezza, ma adesso abbiamo giocatori maturi, con tante partite giocate in categoria ed anche più su. L’esito resta quello, deprimente, del terrore che corre sul filo ogni volta che la squadra avversaria avanza. E’ successo con la Feralpi, è successo a Perugia e poi con il Gubbio e nel secondo tempo di Verona ed infine col Carpi, solo per restare al 2021. Sulla fascia destra c’è una falla che non si riesce a chiudere ed a sinistra con tre esterni in rosa (Karkalis, Ventola e Pinna) si continua a provare Benucci che dell’esterno non ha il passo né la mentalità. E’ vero che la difesa si ritrova spesso attaccata da avversari in superiorità numerica e che guadagnano campo con irrisoria facilità perché la “diga” là in mezzo regge poco e niente. Come perdiamo palla, la squadra rincula, scala di qualche decina di metri e lascia che gli altri avanzino in libero palleggio fino alla nostra trequarti, con il risultato che se anche recuperi palla, hai da fare 60/70 metri per ribaltare l’azione (con relativo dispendio) e che difficilmente in questa maniera puoi riuscire a sorprendere l’assetto difensivo avversario che ha tutto il tempo di ripiegare. Fino a qui Arini e Altobelli hanno dato un contributo modesto, soprattutto il primo, dal quale ci si attendeva anche capacità di impostazione. Ci sono poi gli equivoci tattici legati al ruolo di Di Paolantonio e Serrotti. Il primo ha piedi deliziosi, ma il suo posto sul campo (ovvero dove rende di più), è simile a quello del vecchio centromediano metodista, poco davanti alla difesa ad illuminare con la sua capacità di leggere il gioco e di servire anche lungo e bene. Se avanza, finisce nella morsa del centrocampo avversario e si perde. Se resta dietro in una mediana a tre con relativo contributo dinamico, di palle giocabili non se ne creano. Serrotti è un giocatore che rende se utilizzato, come aveva felicemente intuito Dal Canto, nel ruolo di “sottopunta”, a sparigliare tra centrocampo e attacco con il suo dinamismo e la sua capacità di inserimento tra le linee. Non è il giocatore che salta l’uomo. Dirottato sulla fascia, viene stretto sulla linea laterale dal difensore e non trova spazi, trasferito in mezzo al campo in ruolo di regia non ne ha le caratteristiche. C’è chi ha assurdamente contestato il suo ritorno in ragione di un supposto tradimento quando il giocatore accettò di vestire la maglia di “quelli d’oltre Rigomagno”, ma semmai ci sarebbe da chiedersi se il ritorno del “Serro” era funzionale a quel che serviva alla squadra, date le caratteristiche sue e le carenze nostre. Qui si tornerebbe ad aprire un capitolo infinito sulla direzione tecnica, ma lasciamolo per un’altra volta se non citando di passaggio le scelte per l’attacco, zavorrato da infortuni, un po’ certamente dovuti alla sfortuna, un po’ al fatto che magari non si è verificata fino in fondo la storia fisica dei giocatori ingaggiati. Resta il fatto che dopo 24 partite, tre rose allestite, tre allenatori, dovessi dire che la squadra ha una propria fisionomia di gioco mi sentirei in imbarazzo. Solo a tratti si è vista un’idea tattica (primo tempo a Verona, qualche sprazzo con la Sambenedettese) per il resto anche quando siamo riusciti a raddrizzare situazioni che ci hanno visto quasi sempre andare sotto, è stato il cuore a spingerci oltre l’ostacolo, ma mai un’idea razionale dell’occupare il campo. La sensazione che si ha quando l’Arezzo attacca è che si vada un po’ a caso, affidandosi all’estro del momento, alla giocata del singolo, al cross buttato là sperando che qualcuno ci arrivi. Azioni impostate palla a terra, fluide, con 5/6 passaggi consecutivi si contano sulle dita di una mano. 24 partite, 12 punti. Gira e rigira siamo sempre con una media di 0,50 punti a gara e così, anche se la parola resa non può e non deve fare parte del nostro vocabolario, il destino è segnato.