Noi siamo l’Arezzo. Ma ora via i mercanti dal tempio

A Cesena l’Arezzo non è sceso in campo, i bianconeri lo hanno fatto in tenuta d’allenamento, ma tanto è bastato per strapazzare un undici senza anima. La vittoria del Ravenna non ha fatto altro che ratificare un ultimo posto che alla fine (e con la morte nel cuore) ci siamo meritati con accanita determinazione (in questo sì) da settembre ad oggi. Tra le 59 squadre della serie C solo la Cavese ha fatto meno punti di noi. Un lunghissimo rosario di errori e di orrori in campo e fuori hanno portato l’Arezzo alla prima retrocessione sul campo in serie D in 98 anni di storia. La rabbia in questo momento è tanta, ma non ci esime dal tentare una ricognizione su ciò che è stato, su quello che ci ha condotto a tre anni di distanza dalla grande festa di Carrara, a due dal sogno della B sfiorato contro il Pisa a mobilitare le forze dell’ordine (nella foto, ndr) per assicurare un rientro senza danni ai giocatori dall’ultima trasferta di campionato. Gli errori e gli orrori, si diceva. Partiamo dalla società: la Mag è arrivata ad Arezzo dichiarando (lo ha fatto anche oggi nel post partita lì amministratore dottor Selvaggio) di aver salvato l’Arezzo dal fallimento. In realtà al momento dell’acquisto la squadra era stata iscritta da Giorgio La Cava che aveva anche detto pubblicamente che avrebbe gestito la stagione al minimo. Avrebbe fatto peggio dell’ultimo posto? Sulla poltrona di direttore generale si è seduto un giovane dirigente rampante, Riccardo Fabbro, uno bravo a parlare ed a gestire la sua immagine al netto di qualche frequentazione non entusiasmante (da Follieri a Mariani). L’assetto proprietario non risulta, a guardar bene, proprio limpidissimo (per me questo si verifica quando i riconosciuti proprietari non ricoprono nessuna carica ufficiale). Roberto Muzzi, ex calciatore dal passato importante, fa da garante nell’area tecnica. Negli stessi mesi dell’acquisto dell’Arezzo, il gruppo ha acquisto altre due società, in D ed in Eccellenza e strada facendo le quote di un altro club in vista di una prossima rilevazione della maggioranza. Per me che vedo il calcio come una cosa di cuore e di passione, tutto questo continua ad avere poco senso. La proprietà ci mette comunque soldi, tanti; cifre da promozione diretta. Continua a farlo nonostante i risultati sul campo continuino ad essere più che modesti, con una logica imprenditoriale che fatico a comprendere e senza mai mettere in discussione il vertice della piramide dal punto di vista tecnico. E sotto questo aspetto le lacune sono voragini. Si è partiti ad agosto con un gruppo assemblato dal direttore sportivo Di Bari (scelta di Fabbro, avallata da Muzzi), che essendo pugliese ha fatto campagna acquisti a chilometro zero, allenatore compreso. Il buon Potenza ci è stato spacciato come un tecnico giovane ed emergente, quando bastava andare a vedere il curriculum per scoprire che solo l’anno prima era stato cacciato con la squadra in zona retrocessione e che quella stessa formazione aveva poi concluso, con altra guida, al quinto posto. I calciatori ingaggiati, nell’insieme potevano assicurare un onesto campionato di quarta serie, ma certamente non la C e non in un girone competitivo come quello prescelto. La “ciliegina sulla torta” è Cerci, voluto fortemente da Muzzi, uno che ormai da almeno un paio d’anni è pressoché universalmente considerato un ex calciatore e che viene ingaggiato come uomo-immagine. A suon di schiaffoni e con la squadra zavorrata in fondo alla classifica, arriva inevitabile la cacciata di Di Bari e Potenza. Si sceglie Camplone, tecnico navigato per la categoria; Muzzi assume la direzione dei lavori lato area tecnica. Cominciano ad arrivare, pagati a peso d’oro, svincolati dalla B e dalla C. Lievitano le spese, ma la squadra resta ultima. Ci si mette anche il Covid, che ci costringe a recuperi a tappe forzate (accadrà poi anche al Ravenna), ma il risultato non cambia. Per sovrappiù l’unica punta di peso (Pesenti) si fa male ed è perso per il resto della stagione. A gennaio, proprio dopo la sconfitta col Cesena, salta anche Camplone. Arriverebbe anche un d.s. al quale però va un n.g. come a quei giocatori che entrano negli ultimi 5 minuti. Mai sentita una parola. Mai rivendicata una scelta. Mai risolto un problema dei molti contratti in carico se non con risoluzioni onerosissime. Muzzi imperversa e porta ad Arezzo tanti giocatori che sulla carta dovrebbero cambiare faccia alla squadra. In panchina arriva Stellone. E’ La svolta, pensano i bistrattati cuori amaranto. Ed invece cambia qualcosa, ma troppo poco per invertire la rotta. Squadra spesso abulica, protagonista di prestazioni imbarazzanti o svogliate, quasi sempre senza la giusta grinta per risalire la china. Si perde in casa col Gubbio, non si riesce a vincere con Imolese e Ravenna. A Legnago si acciuffa il pari per il rotto della cuffia. La retrocessione di oggi nasce qui, più che dall’ultima insulsa partita della “Fiorita”. Solo quando c’è stato da prendersi la rivincita sulle infelici e sciocche dichiarazioni di Di Donato nel post partita dell’andata con la Vis Pesaro si è vista una squadra vera. Ma è più un’aggravante che altro. Il tecnico ci ha messo del suo, insistendo con il centrocampo a tre nonostante avesse giocatori lentopede che venivano regolarmente bypassati dagli avversari, sacrificando spesso l’unico con i piedi buoni (Di Paolantonio) a favore di una mediana muscolare, ma senza idee. Fino all’ultimo non c’è stato modo di vedere un’idea di gioco, fino all’ultimo se e quando si riusciva a combinare qualcosa, era frutto di iniziative individuali ma mai di una manovra ragionata e pensata. Sul piano dinamico qualunque avversario (con l’eccezione citata) ci è stato superiore. Sempre con più gamba, sempre con più grinta, sempre con più voglia. Così non ci si può stupire più di tanto dell’esito finale. E che dire poi dell’ambiente? Per nove mesi si è assistito alla “sagra del pensiero unico”. Qualunque dubbio, qualunque critica seppur espressa con misura e sempre nell’interesse superiore del calcio amaranto, veniva puntualmente esposta al pubblico ludibrio, si veniva tacciati di revanscismo, di nostalgie “pieroniane”, di “remare contro” aspettando con ansia a volte anche minacciosa il momento di scaraventarci giù dal carro dei vincitori che sarebbe immancabilmente passato in trionfo per le vie del centro. E invece oggi su quel carro non ci sale nessuno e tutti quanti siamo sconfitti ed umiliati, costretti a tornarcene nei campetti di provincia tra le zolle e gli sfottò. A reti e siti pressoché unificati (non il nostro) è andato in onda il giustificazionismo a tutti i costi, l’esaltazione di scelte palesemente ed economicamente folli nell’immediato ed in prospettiva (aspetto ancora qualcuno che mi spieghi la “ratio” del triennale a Cerci) con messa all’indice dei reprobi. Non c’è nessuna soddisfazione oggi nello scrivere queste parole, non c’è nessuna voglia di rivalsa, ma solo l’invito a tutti coloro che davvero vogliono il bene dell’Arezzo ad imparare a guardare oltre, a coltivare il seme del dubbio. Amare incondizionatamente la bandiera in maniera disinteressata, significa anche guardare la luna e non solo il dito e fregarsene della ribalta. Conta solo l‘ Arezzo, anche oggi che le lacrime si confondono con la rabbia feroce. Il futuro ora ci deve essere presentato in maniera chiara, senza magheggi, senza sotterfugi. La società deve essere rifondata mettendo le pedine giuste al posto giusto, gente che sa di calcio e che non si improvvisa, gente che se sceglie un calciatore lo fa per una logica tecnica. La serie D non è uno scherzo e uscirne fuori sarà durissima. Ma anche stasera noi siamo l’Arezzo. Ora via i mercanti dal tempio e cominciamo a rinascere.

La retrocessione dell’Arezzo

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